Testimonianze

Fratelli sempre in cammino

Un pellegrinaggio è sempre una ricerca di riconoscimento. Riconoscersi come figli di Dio e riconoscersi come gli altri e con gli altri che si incontrano lungo il cammino. Questo desiderio di riconoscimento è ciò che ha spinto me e mio fratello a incamminarci per Monte Athos. Dopo 2 anni di pandemia e pochissime occasioni di incontro fisico, vivendo in due città diverse, abbiamo deciso di riconoscerci come fratelli in cammino e in un dialogo costante che non può svolgersi solo attraverso lo schermo di un telefono.
L’arrivo a Monte Athos è stato sicuramente una sorpresa. Un luogo in parte mitico, vicino all’Italia e in fondo così diverso. Fortissima la presenza di pellegrini dall’est Europa che sono al tempo stesso simili eppure molto diversi per abitudini e tradizioni rispetto a due giovani fratelli cattolici italiani. Una volta varcato l’ingresso del Monte Athos la bellezza del luogo passa quasi in secondo piano rispetto al respiro dei tempi. È così forte la sensazione di entrare in un tempo altro, in cui ogni momento della giornata, ogni abitudine e rito sono sacralizzati secondo tradizioni di un passato lontano che non passa.
Preghiera, silenzio, mensa in comune, sobrietà del vivere tutto ha rinvigorito lo spirto mio e di mio fratello ma soprattutto il riconoscersi in una fratellanza maschile, non machista, c’ha sorpreso più di tutto. Subito si diventa fratelli a Monte Athos, subito ci si riconosce fratelli con gli atri uomini presenti. Non contano nazionalità, età, background, ecc. Un “cameratismo” dello spirito, raro e forse in parte privilegiato, che riporta ad una certa essenzialità dell’essere uomini. Un luogo che rappresenta piuttosto una sospensione spazio-temporale in cui riconoscerci semplici uomini in cammino verso un più grande senso di completezza.

Giacomo e Giovanni Luchetti

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Maestra Montagna

Un giardino di marzo

Arrivo a Ouranopoli in un marzo uggioso, dopo anni di peregrinaggio dell’anima e della mente alla ricerca di una pace cercata con strumenti umani, che in quanto tali non sentivo d’aiuto nel riappacificarmi con un mondo che mi sembrava essere per buona parte lontano dall’uomo e dall’umanità. Ho conosciuto la Sacra Montagna grazie a letture che non promettevano una pace garantita dalla sola scelta di leggerle, né tantomeno di praticarle, ma garantita dalla certezza che potessero immettermi in un cammino tanto giusto quanto irrimediabilmente – e fortunatamente – interrompibile da inciampi. Un cammino alla ricerca dell’assoluto non è camminato dall’assoluto, ma dall’uomo. Una via a scalare, un climax, che si innalza via via che si rientra in sé stessi per sentire la presenza divina ricercata dentro di sé, più che in un luogo. In quel marzo, tuttavia, non era ancora tempo di comprendere tutto questo. La convinzione era semplice, banale, appunto assoluta, per questo facilmente fraintendibile. La vera pace interiore non si può che trovare su quella montagna, in quel luogo al di là del tempo e del mondo. L’esichia è un luogo ben preciso e solo quello, dove si pratica cioè l’esicasmo, fra coloro che ne tengono viva, di vita iperuranica, la tradizione. L’equazione luogo=ricerca abbaglia di luce scintillante la mente per la sua semplicità e immediatezza. Ma fra il Logos e la volontà personale c’è spesso uno scarto che spetta alla seconda colmare. Convinto del senso del mio viaggio, emozionato e sicuro di me, mi trovo improvvisamente davanti a ciò che non era stato nemmeno illuminato da quella luce distorcente: test positivo. Stai qui. Non parti. Buio. Perché quella pace che da anni cerco non mi accoglie? Guardo l’Athos nella tipica foschia di marzo dalla staccionata del lungomare di Ouranopoli. Il giardino della Panagia è lì, ma non per te. Le riflessioni che mi hanno portato qui sembrano sgretolarsi su sé stesse. Nella stanza d’albergo l’icona di S. Paisios è un chiaro invito a pregare, perché è questo che si fa sulla Sacra Montagna. Non hai percorso tutta questa strada venendo fino alle porte dell’Europa per questo, per pregare? Desidero tornare a casa mia, per stare in ascolto con Dio, cercandolo dentro di me, con chi mi ama e amo.

Nel silenzio dell’eremo

Alle cinque e mezza di ogni mattina, da mille anni, le campane del Sacro Eremo di Camaldoli svegliano i monaci per le preghiere del mattino. Pur essendo luglio, l’aria casentina è fresca e rigenerante. Racconto a un monaco quanto accaduto a marzo. Sa bene di cosa io stia parlando: la spiritualità camaldolese sprizza di rimandi orientali, cristiani e non cristiani. “Sei già tu quello che stai cercando, è dentro di te. Non in un luogo particolare, ma dentro di te”. Parole che illuminano di vera luce quanto era stato da me oscurato, ma che non per questo era oscuro al cuore, perché è il cuore. Riparto dal Sacro Eremo verso casa, percorrendo un cammino che, rifletto, può condurmi alla Sacra Montagna per ciò che essa è davvero, e non secondo me.

Autostrada

Osservo lo svincolo a destra, direzione Milano. Mi chiedo se l’insegnamento di marzo necessiti di un nuovo tentativo di viaggio. L’Athos ha rivestito per me il ruolo del perfetto educatore: rendere autonomo il discepolo vestendo i panni del servo inutile, affinché emerga quanto vi sia di nascosto nell’animo di chi apprende. Un regalo inestimabile, preziosissimo, veramente trasformativo, che tale forse deve rimanere per non diventare materia di paragone con altro. L’Athos insegna a prescindere. La pace è dentro di noi perché Dio è dentro di noi. Non è un luogo. Forse è il caso di vivere a pieno il regalo, abbandonando la strada per l’aeroporto e riprendendo quella di casa, dove – mi ha generosamente insegnato la Sacra Montagna – posso mettermi in ascolto di Dio accanto a chi mi fa vivere il Suo amore giorno per giorno. Ma chi mi ama e amo è adesso vicino a me. “Ora sei veramente pronto. Questo dubbio che nutri ti farà vivere il viaggio con un cuore rinnovato, con un maturo distacco e uno sguardo aperto, abbandonato, di vero ascolto. È il momento giusto. Parti, per noi.”

Echi e nuove note

Arrivo a Salonicco e incontro volti conosciuti insieme ad altri sconosciuti la cui voce, però, mi è familiare e amica. La strada per Ouranopoli non è cambiata, ma per me non è la stessa. La percorro col viso rilassato e non contratto, con un lievissimo sorriso che mi scaturisce dal totale abbandono alla divina Provvidenza, lasciando, come ricorda De Caussade, che Questa percorra l’animo in passivo accoglimento. Mi presento al test, è mattina presto. Il ricordo della sensazione che a marzo seguì all’esito positivo si mescola a una inaspettata curiosità sulla direzione degli argini che la volontà di Dio avrà costruito per me questa volta. Come un soffio, il mio nome scompare nel lungo elenco di nominativi declamato dagli addetti e che corrisponde a coloro il cui test è negativo. Così, con una semplicità e una leggerezza disarmanti. Questa volta la volontà di Dio si è indirizzata in tale via. Non sempre la via pensata da noi e quella divina coincidono, e lo scarto fra la nostra e l’altissima volontà è alla base della contraddizione che genera il dolore.

Mare

Una massa ferrosa e materiale, la nave che ci porterà oltre la terra, sulla quale il mio primo passo sprigiona una forza di commozione e gentilezza verso quell’io di marzo. Guardo la staccionata del lungomare di Ouranopoli dal mare e mi rivedo appoggiato in cerca di risposte a domande sbagliate. Nel tempo di viaggio già due eventi si scolpiscono nel cuore di chi scrive. Un monaco anziano, dai vestiti sgualciti, rattoppati, strappati, scoloriti, si avvicina umilmente chiedendoci attenzione per le piccole cose della cui vendita riesce a campare. Vedo un afflato superiore nella sua umiltà e di colpo si chiarisce il senso di Mt 20, 16. Metri di spiaggia incontaminata, isolata. Scorgo con fatica in lontananza qualcosa di diverso dal fluire costante della spiaggia. Una figura, di nero vestita, che trasforma il nulla apparente in Tutto.

Nemico?

Arriviamo nella capitale, Karyes, dove il mio interesse viene attirato da monaci che si dilettano con fuoristrada, camion, betoniere, per spostarci poi al primo monastero del nostro viaggio, Pantokratoros. Dopo la sistemazione nella camera, visitiamo la skiti del Profeta Elia a seguito di una buona camminata sotto il sole. Il caldo che provo è insopportabile – credo – perché da me giudicato tale, al di là dell’oggettivo condizionamento sull’epidermide del mondo esterno: non mi spiego altrimenti il motivo per cui mi veda superare da un monaco che mi saluta sorridente con tuta, tonaca, copricapo, barba e capelli lunghissimi raccolti. Mi insegna un’ottimistica possibilità di reinquadrare il condizionamento della temperatura sul mio corpo. Vedremo come andrà l’estate prossima. Nella chiesa della skiti si intona spontaneamente un canto in lingua rumena che vibra l’aria e nella sua eco anche i miei lontani ricordi dell’antenata e comune lingua latina. Torniamo a Pantokratoros, dove incontro davanti alla chiesa Padre Theophilo. Nel suo portamento, nel suo sorriso, nel suo incedere lento e riflessivo, nel suo sguardo ricercante intravedo una figura illuminata come nessun’altra fra quelle che avrei successivamente incontrato in questo viaggio. Sembra un uomo che abbia davvero toccato con lo spirito ciò di cui parla. Gli chiedo quale sia il motivo della ricerca di Dio rispetto ad altri oggetti di ricerca. Interpreto la sorpresa e l’attenzione con cui ascolta, sorride e pazienta nel rispondere alla mia domanda come una forma di cura e di accoglienza. “Dio è Amore. Non c’è molto altro, solo chi pensa bene di tutti ha il cuore puro.” Una semplicità che si affetta col rasoio, tanto sottile quanto invisibile a molti di noi. “E l’amore per il nemico, Padre?”, chiedo cercando di inoltrarmi in campi sconosciuti cercando di prevedere una risposta fra quelle che potrei conoscere, così da potermi sentire al sicuro nell’avanzare del discorso. Mi osserva con attenzione per qualche secondo. Sorride, alza gli occhi per poi riabbassarli su di me: “Il nemico? Mmm… Che cos’è… Che cos’è il nemico?”

Casa

Al mattino ci dirigiamo verso il porto di Dafni dove ci imbarcheremo per il monastero di San Paolo, quello che sarà il nostro rifugio dalla mondanità per i prossimi giorni fino alla partenza. Comincio a conoscere i miei compagni di viaggio e a scoprire le storie, gli intenti, le vie. Il bisogno di familiarità che accompagna la possibilità di apertura all’altro è già soddisfatto dalla convinzione che ci si è incontrati perché si condivide una ricerca il cui senso, al di là della soggettiva strada di percorrenza, sia lo stesso. Cosciente che oltre la scoscesa costa rocciosa si trovi Simonopetra, il monastero verticale che guarda l’Alto dall’alto, mantengo basso lo sguardo per non rischiare la confusione a fronte di tanta bellezza esteriore. Non resisto ulteriormente e mi trovo davanti a un’immagine che imprime, nella mia apertura a imparare, l’impegno e la dedizione che i monaci donano alla presenza di Dio in sé stessi e nel mondo. L’attraversamento della penisola in direzione del capo dona una sensazione di graduale allontanamento dal mondo. Inoltrandosi le nuvole lasciano intravedere il deserto aghioritico narrato dai viaggiatori di un millennio e oltre il quale l’anima non si sente lontana da casa. Risalendo la costa ci si innalza contemporaneamente all’innalzarsi della montagna. L’inospitalità dei paesaggi ricorda il sacrificio che alla propria volontà singola e personale è richiesto per avvicinarvisi. Man mano che i pellegrini scendono nei vari monasteri la piattaforma della nave si dirada e siamo rimasti in pochissimi. Arriviamo a San Paolo, da cui si scorge la cima dell’Athos. Accolti come amici già conosciuti più che come semplici pellegrini, mi affaccio dal balcone dell’archontariki senza cercare di forzare un ambientamento che credo avverrà senza alcuna fatica. È sufficiente pregare per la presenza di Dio in noi.

Cammino

Arriviamo in Chiesa e dopo qualche minuto si avvicina una forma maestosa, non per tratti esteriori o fisiologici, ma per l’aura spirituale che il suo incedere lentissimo ma continuo, ritmato, circolare trascina con sé: è Geronda Parthenios, l’igumeno del monastero con solo cinque classi di scolarizzazione ma che da tutta la repubblica monastica è ricercato quando sorgono raffinate e insolubili questioni teologiche. Cammina accompagnato e sorretto da un giovane monaco dipingendo un’immagine pedagogica in cui, più che un giovane che aiuti un anziano, si percepisce il contrario. Alle 21.30 suonano le campane della notte. Una notte che guardo giungere dal balcone della camera a picco sul bosco e che mi riporta a quella che i veri sapienti chiamano la notte mistica o della non- conoscenza: nessuna luce artificiale inquina il pienissimo buio naturale e nulla è visibile a occhio nudo, così come la vera conoscenza passa dalla relativizzazione del sapere mondano e dal non- sapere davanti alla vertiginosa inafferrabilità di Dio.

Figure

La mattina comincia molto presto con la celebrazione in chiesa, in cui il portato mistico e spirituale della notte viene trasfigurato nella sua sorgente divina. Le delicatissime luci delle candele sembrano indicare la funzione illuminatrice dell’anima, la voce imperiosa che si leva da un’ala nascosta trasporta verso l’assoluto. È impossibile non rimanere sconvolti da questa coppa traboccante di spiritualità. Anche una sensibilità per nulla religiosa ne rimarrebbe sorpreso. Qui, non c’è nulla di umano. Nel refettorio mi raccontano storie sconosciute e immuni dalla curiosità dei romanzieri. Fra i monaci, un inglese che ha studiato scienze a Oxford, un americano giunto sulle sacre sponde vent’anni fa con solo un telescopio con sé e mai uscito dal monastero, un dirigente di una grande multinazionale greca rimasto vedovo, un ragazzo ex lottatore già investito del megaloschima, l’alta carica monastica, un russo appassionato di musica italiana e altri le cui storie vengono sublimate dal nero esicasta della loro tonaca.

Pazienta…

Dopo il pranzo – in ossequio all’orario bizantino – delle sei e mezza del mattino, ci incamminiamo verso Nea Skiti, un villaggio che ospita case con due o tre monaci al loro interno. Conosciamo un eremita, Padre Gavril, la cui cortesia nell’accoglienza supera l’antonomasia monastica. Il suo sorriso gioioso non è di circostanza ma sembra generarsi dalla fortissima gioia di vederci. Ci accompagna a visitare la sua casa come se fosse nostra e il suo atelier di iconografia. Congedatici da Padre Gavril ci spostiamo verso Tryphon, una piccola casa-kellion dove incontriamo un giovane monaco produttore di incenso, Padre Atanasio, e il geronda. Chiedo al primo un consiglio sulla coltivazione nell’animo dell’amore di Dio e per l’altro, ancora imbevuto delle parole di Padre Theophilo. “San Paolo ci spiega bene che la pazienza è una virtù fondamentale che ha bisogno dell’altro per essere coltivata – mi risponde -, da soli non possiamo coltivarla, ma si coltiva solo portando i pesi dell’altro e aiutando questi a portare i nostri. La pazienza ci serve per superare gli ostacoli al fine di elevare la nostra anima e ciò accade proprio grazie alla presenza dell’altra persona. Dopo questo, subentra l’amore di Dio. Sei sposato?” “Sì, Padre.” “Per te vale la stessa cosa.”

Witness, even if alone

Saliamo verso la kellion di Padre Iosif in posizione sopraelevata rispetto alle altre, da cui si gode di un’inglobante vista marittima. Ci accoglie un monaco, non infastidito dall’interruzione della sua preghiera fra gli ulivi che la nostra venuta ha causato. Ci presentiamo consecutivamente in base alla nostra provenienza nazionale: italiano, rumeno, greco, ecc. Sorridendoci e facendoci segno di accomodarci, ci dice: “First of all, human beings!” Ci sistemiamo sul balcone e Padre Iosif mi fa accomodare vicino a lui con un gesto garbatissimo ma sicuro di sé. È un monaco anziano ma vigoroso e di portamento ritto. Mi siedo, inconsapevole della purezza del segno che il padre mi avrebbe di lì a poco impresso nel cuore. Come sempre, i miei compagni colgono la mia sete di dialogo e confronto che nonostante gli sforzi non riesco a ben celare, lasciandomi delicatamente la parola iniziale senza farmi pesare quella sete. “Padre, che senso ha impegnarsi nella conoscenza naturale se tutto quanto è relativo e nullificabile, preso per sé stesso, davanti a Dio?” “Siamo fatti di carne (toccandosi la tonaca) e spirito, ricorda l’episodio di Gedeone nell’Antico testamento. Ci vuole bilanciamento, lo spirito deve tirare la carne un po’ di più verso di sé, questo è il senso dell’ascesi. Non va bene solo il corpo e non va bene solo lo spirito.” “Padre, è molto difficile oggi seguire questa mentalità, una mentalità che mira all’assoluto e che cerca di non appiattirsi alla mondanità. Ci sono anche, per esempio, persone che credo non capirebbero i motivi per cui io sia qui adesso. Cosa potrebbe pensare un giovane della mia età davanti a un futuro sempre più lontano da questo?” “Non puoi piacere a tutti. Cristo diceva che non siamo di questo mondo. Siamo…come si dice…witness! Witness! – enuncia felice di aver trovato il termine che cercava – Siamo come i martiri, diamo una testimonianza, poi saranno gli altri a decidere liberamente cosa fare.” “Padre, e se saranno sempre di più quelli a cui non si piacerà?” “Questa (toccandosi il petto con il pugno) è la vera testimonianza. Come Cristo. Witness, even if alone.”

Ancora un po’?

Salutiamo la kellion di Padre Iosif per visitare la tomba di Giuseppe l’esicasta. Una cappellina scarna, sobria al limite della mancanza, ogni fronzolo è rimasto a Ouranopoli. Ci raccogliamo in preghiera alternativamente davanti al sepolcro. Sappiamo che a questa inestimabile figura di santo dobbiamo la ripresa della spiritualità athonita durante un periodo non eccessivamente fecondo per Agion Oros. Visitiamo la kellion di Padre Abrahim, un monaco dal portamento materno, accudente e premuroso. Ci mostra il suo atelier di icone e ci prega insistentemente di fargli compagnia per il pranzo, garantendoci l’assoluta assenza di disturbo. Gli crediamo, dato che in tempo di festa prepara migliaia di pasti per tutti i monasteri vicini. Cucina delle ottime patate fritte e ci offre degli ortaggi del suo orto. Il pensiero si annacqua nei ricordi della spesa fatta al supermercato vicino casa rendendomi infinitamente grato della genuinità di quanto stia assaporando. Il monaco ci prega continuamente di favorire ancora un po’ di patate, fiducioso della tenuta dei nostri stomaci e forse leggermente confuso sulla differenza fra un pasto festivo e uno ordinario. Abituato alle stoccate della nonna non lo deludo, e per questa semplice intesa il suo viso si inebria di una gioia indicibile, per una cosa – questa sì – che al mio occhio nudo sembra invece ordinaria. Rientriamo al monastero, alle cinque pomeridiane ci aspettano i vespri. Non sembrano essere i monaci i diretti recitatori delle preghiere, è la preghiera stessa a pregare in loro. I toni, i gesti e le parole traghettano in un mondo di senso ulteriore.

Qui siamo tutti ospiti

Il giorno successivo ci attende una lunga camminata volta ad oltrepassare la montagna in direzione del capo della penisola verso Kerasia, per visitare l’eremo di Padre Pamphilo e Padre Eliseo. Il sentiero è lungo e preparatorio all’altezza degli incontri che ci aspettano. A ogni passo il confine fra umano e divino si assottiglia. Incontriamo sulla via Padre Eliseo. Per mia indicibile sorpresa sento che parla italiano, con una leggera flessione romana. Ho davanti un eremita del monte Athos, alle pendici del monte stesso, italiano. La situazione mi confonde, aprendomi congiuntamente a un desiderio di ascolto che può rivelarsi realmente trasformativo. Lo ringrazio per averci accolto nella sua casa e, senza far attendere troppo la soddisfazione di questo desiderio, risponde: “Ci mancherebbe, questa non è casa mia, qui siamo tutti ospiti nel giardino della Panagia”. Veniamo accolti dal geronda, Padre Pamphilo. Ogni eventuale difficoltà e imbarazzo che avrei potuto provare per la vertigine di questi incontri viene smorzato dalla profondità della conoscenza che sembra emergere dal saluto fra la nostra guida e i due monaci. Mi avvicino alla biblioteca, da cui zampillano titoli vitali, terapeutici. Padre Eliseo mi racconta di essersi appassionato, negli ultimi anni, all’astrofisica, lasciandomi esterrefatto. Padre Pamphilo ci accoglie nella chiesa, insegnandoci la differenza fra una chiesa formalistica e una chiesa cardiaca, dove pulsa l’amore divino. Ci fa sentire meno soli nel mondo, ricordandoci che lottano con noi e che siamo parte della stessa famiglia. Nel sederci a tavola, ripenso alla nobiltà e alla magnificenza di quanto abbia sentito poc’anzi. Un eremita athonita studioso di astrofisica. La mia mente è racchiusa in confini troppo mondani e pregiudiziali per poter raggiungere simili altitudini dell’anima. Tuttavia, aiutato dalla gentilezza di Padre Eliseo, provo a chiedergli la natura di una simile commistione, nel tentativo di comprendere il legame tra un sapere non teologico, se non addirittura concorrente, e la divina sapienza. Il suo occhio vigile comprende il mio bisogno di rassicurazione. “Mi appassiona la ricerca della verità da altri punti di vista. Gli scienziati hanno scoperto che nei buchi neri il tempo è quasi inesistente. E che cos’è il senza tempo? Non preoccuparti per la tua ricerca, Dio indirizza ognuno nel cammino più adatto a noi.”

Chiare visioni

Rientriamo nel tardo pomeriggio a San Paolo. Aleggia nell’aria la probabilità che incontreremo direttamente e privatamente l’anziano Geronda Parthenios. È inutile preparare preventivamente e con eccessiva dovizia qualcosa da dire a una simile figura. Se incontro ci sarà, lascerò che sia il momento presente a ispirarmi. Entriamo nel suo studio, ci accoglie seduto su una imponente sedia che ai lati recita la preghiera del cuore. Si accosta al nostro compagno che traduce con impegno, attenzione, dedizione e scienza le nostre parole e le parole dell’igumeno. Dopo i saluti più che di rito, i compagni mi onorano ancora della prima parola. Nutrivo una grande questione da vari giorni che inspiegabilmente a me stesso non aveva ancora sollevato dal polverone degli altri temi. “Padre, mi sono appena sposato, io e mia moglie ci amiamo moltissimo ma ci chiediamo quanto valga il rischio di diventare genitori in un futuro di cui si prevedono guerre, drastiche riduzioni delle risorse, problematiche sanitarie, disastri ambientali.” L’immediatezza nel rispondere emerge, probabilmente, da una chiara visione d’insieme del mondo e dell’uomo. “Una cosa è essere genitori, un’altra cosa è il mondo. Il matrimonio è molto più di una fratellanza. Non abbiate paura, abbiate pazienza affinché ognuno porti i pesi dell’altro, Dio è con voi.” Una trama destinica e provvidenziale unisce come una legge, che è Logos, un produttore di incenso e l’abate di un monastero. Lapidarie. Definitive. Parole che mettono in discussione ben più dell’oggetto della questione portata all’attenzione dell’igumeno, andando a inserirsi su crinali impervi. Si ha veramente fede?

Dio è come il classe G

È l’ultima mattina che avrebbe condiviso lo stesso luogo della sera. Un giovane monaco nerboruto ci accompagna a Laku Skiti, un villaggio abitato principalmente da religiosi rumeni. Saliamo su una Classe G che sembra ragionare come il monastero di cui fa parte, ritenendo il tempo e lo spazio grandezze oltrepassabili. Supera con il suo assetto ogni accidenza e ti trascina potentemente in alto senza temere alcuna pendenza. Tagliamo in orizzontale la penisola per arrivare nella kellion di Padre Paisios, un monaco alto con una postura dolce e mite. Ci mostra il laboratorio di abbigliamento religioso in cui si producono abiti cerimoniali, quotidiani, tiare et similia. Mi rivolge la parola, informandosi sulla mia provenienza religiosa. Spiego che mi accosto all’ortodossia per le sue caratteristiche spirituali e per la sua teologia più che per senso di vicinanza confessionale, provenendo da un’altra educazione. Udito ciò il monaco accantona ogni eventuale distanziamento frutto delle differenze religiose e si illumina alla scoperta di tali differenze. Mi benedice con un delicatissimo tocco e mi abbraccia amorevolmente, manifestandomi la gioia di un incontro che credo gli appaia sorprendente. Mi esterre una simile altezza spirituale, superante ogni costruzione umana nella comunione delle anime. Visitiamo una kellion di recente costruzione, sui cui materiali e colori primeggia l’ordine e la disciplina dell’ambiente. I monaci rumeni sono ottimi artigiani e lavorano instancabilmente creando opere ben strutturate e ordinatissime. Vedo realizzarsi questa teoria con la conoscenza del monaco che si occupa dell’impianto edilizio: solo la tonaca lo distingue da un pugile di categoria pesi massimi. Ci porge in modo aggraziato l’ennesima bevanda di ristoro che segue ogni presentazione, la quale però non contraddice la mia poca dimestichezza con le buone gradazioni.

Diplomazia d’amore

Rientrati, ci aspetta la chiesa per i vespri. Non è un contorno delle varie tappe e degli incontri vissuti durante la giornata, ma la cornice di senso e la donazione della presenzialità divina a ogni gesto compiuto successivamente. In chiesa si percepisce la generazione del Logos nell’anima, che, vivificata, trasfigura il mondo elevandolo dalla sua pura creaturalità all’assoluto, alleggerendolo così della sua finitezza e relatività. È uno sguardo semplice, che coglie la relazione di ogni cosa con Dio e l’inessenzialità che ognuna di esse avrebbe se privata di questa relazione. Uno sguardo totale ma non totalitario: questa relazione è in noi senza che l’altro si senta obbligato ad assumere una posizione in essa. Incontriamo padre Nicodemo. Un monaco dal contegno altero e composto, la cui postura impone obbedienza. Ricopre il ruolo di politico dello stato monastico. “Padre, so che ci sono differenze cristallizzate da secoli che nessuno di noi ha scelto né contribuito a stratificare. Non saprei come definirmi davanti alla necessità di farlo, semplicemente sono qui per pregare con voi ciò che voi pregate. E questo mi fa stare bene.” “Le differenze le fanno gli uomini – enuncia con tono pacato ma deciso, sicuro – se stare qui ti fa stare bene, è ciò che conta. Solo non comprendo il non considerarsi niente in particolare – mi ammonisce -, si rischia una sorta di “nuova epoca” senza molta chiarezza.” “Se è così, allora, Padre, mi sentirei semplicemente cristiano.” “Benissimo.” Il dialogo prosegue su temi di attualità geopolitica. Il monaco ascolta le nostre opinioni sulla situazione eurasiatica senza che nessuna di esse possa sfuggirgli; avanza analisi che tengono conto della scienza politica internazionale purificandola dalle incrostazioni materiali e innalzandola verso interpretazioni di pace e rispetto fra i popoli.

Fedone

Studiare non è trasformare. È lo sguardo dell’anima che studia a trasformarsi, vitalizzando il sapere. Non vi è differenza materiale nell’inchiostro sulla pagina osservata da uno sguardo desiderante di vita e da uno sguardo desiderante di sapere devitalizzato. È la voglia di vera vita a trasfigurare quell’inchiostro. Sono qui, in questa cripta, nella scuola della vera filosofia, dove si diventa filosofi senza pezzo di carta rilasciato da mortali. È la meta più importante del mio viaggio. I compagni mi hanno inaspettatamente donato il senso principale della mia venuta sulla Sacra Montagna. Rimango in silenziosa meditazione in presenza della Storia atemporale e dello Spirito, conscio dell’irraggiungibilità del vero sapere. “Imparare a morire”, dice Socrate a Fedone.

“Luna, bella…”

È l’ultima sera. Luci elettriche spente e buio naturale fanno da contraltare alla luminosità del ramo mediano della penisola calcidica, Sitonia, ben visibile all’orizzonte dal balcone. Non siete soli. Guardo la luna ricordandomi il motivo principale della mia partenza. Essere una persona in pace per chi mi ama e per chi mi ha insegnato con la sua breve vita che questa può e deve avere un senso. So che la stanno guardando anche loro, Dio è con loro.

Lingua universale

Mi sveglio cercando di essere consapevole che stia per lasciare l’Athos. Ripercorro confusamente le sensazioni, gli incontri, le scoperte e gli insegnamenti di questi pochi giorni. Mi emoziona rientrare con uno zaino invisibile che svuoterò gradualmente nella mia amata casa. Incontro Padre Nicodemo, che mi stringe a sé benedicendomi. Mi sorprende un simile gesto espresso da una persona che avevo inquadrato nella sua alterità e compostezza. Accarezzandomi il viso, mi sussurra con tono curativo una frase il cui contenuto si perde nella lingua greca da me poco conosciuta e nell’abbraccio paterno.

I folli. I visionari. I baluardi.

Salgo sul battello per tornare nel mondo. O almeno, credendo di tornarci. Prima di prendere la via del ritorno, prosegue invece verso l’isolato capo della penisola. Comincio a sospettare che potrebbe esserci una possibilità, tanto remota quanto i luoghi che sto solcando, di raggiungere l’altra meta che desideravo scoprire in questo viaggio. Karoulia, dalla traduzione greca di carrucola. Perché questo è l’unico metodo di comunicazione possibile con chi vive sotto un tetto a strapiombo sul mare, in una parete verticale alta 100 metri. Il linguaggio non può nulla davanti a questo. Almeno, il nostro.

Memorie

Il battello fa inversione e, questa volta, prende la via per il mondo. Mi scorrono davanti agli occhi Nea Skiti, San Paolo, Simonopetra, gli altri monasteri. Non sento il bisogno di tenerli a lungo aperti, mi basta chiuderli per vederli tutti insieme. La pace non è un luogo. Il senso della salita sulla montagna è nella sua discesa, per cambiare ciò che si vede a valle tramite una visione rinnovata. Una cosa è molto più che semplicemente e isolatamente sé stessa, è il contorno che assume a partire dall’interpretazione che le dà il nostro vederla: lo sguardo e la cosa guardata si uniscono nell’atto contemplativo, nell’atto che, cambiando le cose, cambia il mondo in cui le cose sono. Il mondo cambia al cambiare della visione di esso. Intravedo dal battello Ouranopoli, con le sue luci e i suoi colori accattivanti. Ma la mia attenzione va su quella staccionata mentre leggo l’ultima pagina di un libretto di memorie di san Silvano. Sbarco e vado ad appoggiarmi su di essa. Osservo la montagna senza foschia, e mi dico: “Ricordati sempre: non disperare mai.”

F.

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